Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro. “Oh, che buon odore di carne cristiana!” L’Orco si fermò a piè dell’albero, e cominciò ad annusar l’aria: “Oh, che buon odore!” Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona sorte era buio fitto; e l’Orco, cercato inutilmente per un po’ di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini. “Té! Té!” Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da quell’albero e cominciò ad inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza. “Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito.” “Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti mangerà vivo, poverino!” Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell’Orco e la voce di lui che se li chiamava dietro: “Té! Té!” ‘ Questa volta sono morto! ‘ pensò il Re. “Vien qua, “disse la ragazza “bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua schiena, e la mia gonna ti coprirà. Non fiatare!
L’Orco, vista la figliuola, si fermò. “Che fai lì.?” “Mi riposo.” “Oh, che buon odore di carne cristiana!” “Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino.” “Brava! E le ossa?” “Se le rosicchiarono i cani.” L’Orco non cessava d’annusar l’aria. “Oh, che buon odore!” “Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via.”
Se volete sposarmi
Partito che fu l’Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno, tutta la sua storia. “Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io.” La ragazza era una bellezza; il Re l’avrebbe sposata volentieri. “Ahimè, bella ragazza! Ho impegnato la parola.” “È la mia cattiva sorte! Ma non importa.” Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata di suo padre. Il Re fu fatato. “Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure.” “Eccola.” “Che cosa è quest’unto?” “È l’olio della cote dove è stata affilata.” Colla fatatura, ci volle un batter d’occhi per tornare al luogo dove trovavasi l’albero che parlava. La Strega non c’era, e l’albero gli disse: “Bada! Dentro il tronco c’è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi non dar retta alla Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di darli in giù, e tu dalli in su; altrimenti m’ammazzeresti.
Neppure la fatatura ti slverebbe
Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa con un sol colpo, o saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe.” Venne la Strega. “Che cerchi da queste parti?” “Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui.” “Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi dove ti dirò io.” “Va bene.” Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d’un rasoio e domandò: “Dove?” “Qui.” E lui, invece, diè lì. “Ho sbagliato. Da capo. Dove?” “Lì.” E lui, invece, diè qui. “Ho sbagliato. Da capo.” Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava guardinga. Il Re fece: “Oooh!” “Che vedi?” “Una stella.” “Di giorno? E impossibile.” “Lassù, diritto a quel ramo: guardate!” E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo, lui le menò il colpo e le staccò, di netto, la testa.
Fiaba di Luigi Capuana