Un giorno di calda estate, le fate erano uscite per bagnarsi nelle acque del lago Lala e i due giganti ricevettero l’ordine di vigilare fuori dalle mura della cittadella; così non le avrebbero viste mentre giocavano e sguazzavano nude nelle onde. Valer non esitò. Si appressò alla cittadella più che poté, fermandosi ad ogni passo dietro un tronco di un albero per non farsi vedere; quando pensò che fosse il momento opportuno, incoccò una freccia aguzza, con la punta d’acciaio, e saettò il gigante di destra nel bel mezzo del petto. Il dardo penetrò direttamente nel cuore, sicché il gigante, senza poter dire nè ai nè bai, rovinò a terra in un lago di sangue. Adattò un’altra freccia alla corda dell’arco e scoccò pure questa nel petto del secondo gigante. Ebbe identica fortuna e uccise anche quello. Se non li avesse centrati giusto nel cuore, guai a lui: lo avrebbero soffocato come una cornacchia appena nata. Poi entrò nella cittadella e dalla riva del lago spiò le fate che si bagnavano, con gli occhio sgranati per la loro bellezza; poi, di soppiatto, veloce come un fulmine, rubò la veste della principessa.
Si trasformarono in colombe
Le altre fate, accortesi del pericolo, si trasformarono in colombe e spiccarono il volo verso occidente; rimase lì soltanto la principessa, la quale non cessava di implorare Valer che le restituisse le vesti, promettendogli in cambio tesori e beni di grande valore. Ma lui non la ascoltava neppure. Non gli importava nulla né della sua preghiera né delle sue lacrime e della sua angoscia e non rispondeva a nessuna domanda. Così gli avevano insegnato le vecchie del villaggio, esperte di magia: non bisogna parlare con le fate né restituire loro le vesti, se le si vuole privare del potere di nuocere. Visto che col giovane non c’era da scherzare, la fata alla fine si calmò. Sembrava che si fosse abituata a vivere con lui, tanto più che Valer era un ragazzo molto bello e bravo, la aiutava, faceva di tutto per lei, le portava selvaggina fresca, le dava una mano a cucinare; soltanto, non parlava e non mostrava il luogo in cui aveva nascosto la veste incantata.
Passarono i giorni
Provvide lui a confezionarle altre vesti graziose; ma con quelle essa non poteva stregare a nessuno, perché non avevano nessun potere magico. Così passarono i giorni, le settimane, i mesi. Dopo nove mesi, la principessa delle fate diede alla luce un bimbo dai capelli d’oro, bello come un sogno. Valer era molto felice; e sembrava felice anche lei, quando vedeva cinguettare quella creaturina leggiadra che le assomigliava perfettamente nel viso e in tutta la figura. Tuttavia a volte veniva improvvisamente colta da una grande tristezza, da una gran pena; allora cominciava a cantare finché valli e monti risuonavano del suo canto. Quando cantava con più ardore, venivano le undici colombe, le sue sorelle, a posarsi sulle mura della cittadella; la principessa di un tempo usciva a mostrar loro il bambino, dentro una cuna d’abete. Esse lo osservavano a lungo, come se si trattasse di un’apparizione, poi scuotevano il capo e ripartivano verso li loro paese. Una sera Valer tornò a casa più stanco del solito.